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Replying to RICORDO DI FAUSTO GIANFRANCESCHI RIPRESO DAL PERIODICO TRADIZIONE
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Alfonso IndelicatoPosted: 25/4/2012, 12:00

tradizione1


Periodico di studi ed azione politica

Anno XLVIII – nuova serie – n. 43 – aprile-maggio 2012
Aut. Tribunale di Napoli 1638 del 21-5-196

FAUSTO GIANFRANCESCHI

di Angelo Ruggiero



Il 19 febbraio 2012 è morto Fausto Gianfranceschi, all’età di 84 anni, allorchè un male inesorabile gli ha dato il colpo di grazia. Fausto ha convissuto con la sua malattia per più di vent’anni. Quando gli fu diagnosticata non gli dettero più di sei sette mesi di sopravvivenza. E’ diventato così un “caso clinico” inspiegabile e “misterioso” secondo i canoni della scienza medica dei nostri giorni. Probabilmente la sua forza di resistenza per così tanto tempo derivava dalla disinvoltura e dall’ironia con la quale trattava la sua malattia, così come faceva con tutte le altre cose della vita. Si curava certamente, ma continuava a fumare senza preoccupazioni di sorta, o almeno così dava a vedere a quanti lo conoscevano e lo frequentavano.
Con Gianfranceschi scompare uno dei più attenti e preparati rappresentanti della più autentica cultura delle genti italiche, cultura di civiltà che ha radici così profonde da renderla capace di superare epoche ed eventi storici per secoli senza mai correre il rischio di scomparire anche quando teorie filosofiche e modalità politiche estranee alla nostra tradizione di civiltà hanno cercato in tutti i modi di cancellarla o di obliarla.
Gianfranceschi “nasce” come politico, uomo di pensiero e letterato nell’immediato dopoguerra, tra quella generazione di giovani cresciuti durante il periodo mussoliniano e che si batté sui campi di battaglia della seconda guerra mondiale aderendo susseguentemente alla Repubblica Sociale per riscattare l’Italia dal vergognoso armistizio dell’8 settembre 1943. Giovani che erano sopravvissuti anche alla feroce guerra civile che divise gli italiani dal 1943 fino al 1945 che si prolungò dopo la disfatta bellica, che non riguardava solo il fascismo ma tutti gli italiani, sino alle soglie degli anni 50. Giovani che non vollero arrendersi al “fato” avverso ma con orgoglio e grande dignità non rinnegavano i principi ai quali avevano creduto e cercarono di inserirsi nella nuova realtà del dopoguerra. Non intendevano ripristinare una esperienza storica che ormai era assurdo illudersi di ristabilire anche sotto altre forme. Volevano affrontare il presente nel quale vivevano, guardare al futuro che a loro apparteneva e continuarono a sostenere precise idee politiche e culturali con impegno civile, adottando il metodo democratico e tentando di riunire gli italiani attraverso una sorta di “innovazione”, termine preso a prestito dal linguaggi giuridico, per ricostruire l’Italia secondo la sua più autentica tradizione, superando odi e rancori, confrontandosi con gli avversari attraverso un serrato dibattito di idee e di progetti.
Tra questi giovani straordinari che aderirono sin dal suo sorgere alla Destra politica italiana nata nel dicembre 1946, e insieme a loro altri giovani che per età anagrafica non avevano conosciuto il fascismo e li seguirono con entusiasmo e impegno, tutti maturati precocemente per le circostanze obiettive nelle quali si dovevano misurare, vi era la gloriosa “pattuglia” dei “Figli del Sole”, capeggiata da Enzo Erra, e tra gli esponenti più significativi di questa “scuola di pensiero” vi era Fausto Gianfreschi.
Ho conosciuto Fausto prima solo di nome, per essere stato egli uno dei protagonisti dei FAR che pagarono con il carcere una loro azione dimostrativa, e poi per avere letto con particolare interesse un suo articolo, pubblicato sulla rivista “Imperium”, il 5 settembre 1950 intitolato “Involuzione della musica, dall’ideale classico al cerebralismo contemporaneo”, con il quale Gianfranceschi operava un’analisi storica e filosofica della decadenza dell’uomo, dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione Francese e gradualmente con il Romanticismo, l’Impressionismo, il Decadentismo sino al Jazz e la Decafonia, con una conoscenza della musica impressionante per un uomo tanto giovane in possesso di tanta cultura. Ma dopo una così dotta e impareggiabile disquisizione brillante e chiara sotto ogni aspetto per dimostrare la diversità del sentire dell’uomo contemporaneo, annullato e massificato, Gianfranceschi concludeva che non era possibile evadere da una realtà solo perché ci nausea. Noi siamo figli di questa epoca e, quindi per creare un’arte ”nostra” dobbiamo cercare le premesse e gli strumenti nelle espressioni artistiche di questa epoca: esse rispecchiano la realtà d’oggi, e noi in questa realtà dobbiamo reagire, anche se in modo rivoluzionario. Gianfranceschi non era un “uomo dritto tra le rovine”, come qualcuno commentando la sua scomparsa ha voluto definirlo, ma un uomo che concretamente si sentiva “figlio” del tempo che gli era stato dato da vivere, accettandolo, anche se con l’intento di trasformare questo tempo attraverso principi e valori tradizionali sempre validi, adattandoli alle circostanze della realtà presente. Un uomo integrale e completo ben saldo nella sua grande fede religiosa che lo ha sorretto nei travagli e nei profondi dolori che ha subito durante tutta la sua vita. Fede religiosa che non gli impediva di scorgere derive clericali e di denunciare i percoli che correva la Chiesa con certe interpretazioni “moderniste” del Concilio Vaticano II.
Conobbi personalmente Fausto Gianfranceschi, agli inizi degli anni 50 ed ebbi una certa assidua frequentazione con lui sino alle soglie degli anni 60, specialmente durante il periodo nel quale egli fu Presidente Nazionale della “Giovane Italia”, la gloriosa organizzazione studentesca che fu egemone nel mondo giovanile della scuola sino ai primi anni 70. Poi lui lasciò la militanza partitica per dedicarsi alla professione giornalistica, allorché Renato Angiolillo gli affidò la terza pagina del quotidiano “Il Tempo” di Roma, di cui era il fondatore e il direttore, e lo nostre strade si separarono. L’ho ritrovato solo nel 2003, grazie all’amico comune Massimo Anderson, e fu come averlo lasciato il giorno prima, ed egli con l’amicizia di sempre mi fece il dono prezioso di alcuni suoi articoli che pubblicai sulla rivista “TRADIZIONE”. Ma durante i vent’anni nei quali egli curò la terza pagina del “Tempo” prima diretto da Renato Angiolillo e poi da Gianni Letta, l’ho sempre seguito nei suoi articoli sul quotidiano romano che lui aveva aperto alla collaborazione di uomini di grande cultura quali Augusto del Noce, Mario Praz, Ettore Paratore e tanti altri e a giovani di grande talento quali Marcello Veneziani, Franco Cardini, Paolo Isotta, solo per citarne alcuni che con non pochi altri formano la migliore classe intellettuale dei nostri tempi.
Ho anche seguito sempre con interesse e ammirazione la sua notevole produzione narrativa, memorialistica e saggistica, che non enumero perché lo hanno fatto già con accenti di affetto sincero, Marcello Veneziani, Gino Agnese, Gennaro Malgeri, Primo Siena, Piero Vassallo, Renato Besana e tanti validi giornalisti e intellettuali fuori dal conformismo dominante.
Ma tra l’ampia produzione di libri e di saggi, tutti particolari ed eccezionali, desidero solo fare un accenno a “SVELARE LA MORTE”, che Fausto scrisse più di trent’anni fa, dedicato alla perdita di suo figlio Giovanni in un incidente stradale, attraverso il quale, oltre al suo dolore, affronta l’incognita della morte rimossa dalla “civilizzazione” nichilistica contemporanea.
E ancora “L’AMORE PATERNO” che è un inno alla famiglia fortemente sentito e sofferto, e “FEDERICA MORTE DI UNA FIGLIA” pubblicato nel 2008, che attraverso tutte e sue pagine illustra lo strazio e la tragedia per la morte di sua figlia non ancora quarantenne.
Libri che andrebbero pubblicati insieme all’altro suo lavoro pubblicato nel 1983 “GIORGIO VINCI PSICOLOGO” e ancora il libro “DINO BUZZATI” pubblicato nel lontano 1967. Ma tutti i libri di Gianfranceschi andrebbero ripubblicati e fatti leggere a quanti non lo conobbero e ai tanti giovani di oggi che non ne hanno mai sentito parlare.
Fausto Gianfranceschi ci ha lasciati senza mai cedere alla tentazione di tirare i remi in barca e lasciarsi andare alla deriva. Un esempio perenne per tutti noi.

Angelo Ruggiero